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Tamerisco XVII

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XVII



Quel pomeriggio incontrai Luigi alla libreria S. Giovanni, dove mi fermavo almeno una volta la settimana per vedere le novità, .

“Non ti basta vivere tutto il giorno in mezzo ai libri?” disse sbirciando il volume che tenevo in mano, un’edizione economica di “Gente di Dublino” che mi attirava per l’estesa prefazione e l’accurato commento critico.

“Già, è proprio una droga!” risposi.

Dopo aver scambiato qualche battuta, ci perdemmo di vista. Lui salì al primo piano, verso la sezione dei viaggi e delle cartine geografiche, io continuai a scartabellare romanzi e libri di poesia. Ci ritrovammo alla cassa e uscimmo insieme. Percorremmo la strada fino al bivio di Via Ariosto parlando di Adelina, della loro amicizia dai tempi del liceo. Scoprimmo di avere alcuni amici in comune. Era alquanto prematura la nostra nostalgia per la giovinezza, considerato che ne eravamo nel bel mezzo.  Ci salutammo promettendo di rivederci presto.

Tornato a casa, tentai di aprire la porta, ma la chiave stentava a girare. Riprovai più volte infilandola con forza, poi estraendola dolcemente, per far coincidere i dentini con l’ingranaggio della serratura. Quando finalmente riuscii ad aprire, lo spettacolo che mi si presentò era simile a quello di uno stadio di calcio dove avevano bivaccato i fans di una rockstar, o quello di una strada dove era passato un corteo di no global. Avanzai tra vetri rotti, cuscini spiumati, cocci di piatti e tazze, suppellettili di cucina che spostavo cautamente col piede. Nella stanza da letto il materasso giaceva per terra facendo mostra del contenuto in lattice, come un addome squarciato fa mostra delle proprie interiora. Così pure la pattumiera riversava sul pavimento lattine di birra e fogli di carta appallottolati. La biancheria e i libri erano sparsi ovunque, sgualciti, alcuni laceri: solo Gozzano aveva conservato la sua posizione sul comodino e pareva un generale che contemplasse da un’altura le proprie truppe disperse dopo la sconfitta. Provai rabbia, umiliazione e poi oscura paura. Ritornato all’ingresso lanciai uno sguardo rancoroso al monolito che se ne stava là col suo cazzo inutilmente duro, come se fosse stato suo dovere difendere la casa, o per lo meno fare la guardia, avvertire che degli estranei erano penetrati proditoriamente, forzando la serratura.

Chiamai Tango che mi intimò di non toccare nulla, che sarebbe arrivato immediatamente. E così fu: Michele arrivò in compagnia di due agenti. Perlustrarono l’appartamento spostandosi come felini, con passi felpati, sollevando da terra una tazza, un cuscino, la penna biro, una forchetta, il coccio di un piatto andato in frantumi. Finito il lavoro, i poliziotti andarono via. “Sono specialisti della Scientifica, sono scienziati, a loro non sfugge nulla” Disse Michele.

Quando era preoccupato, i suoi occhi diventavano due fessure impenetrabili. Eravamo rimasti noi due in piedi, sulla porta di casa, a contemplare pensierosi quello spettacolo di macerie, mentre la sera penetrava silenziosa dalla finestra con le luci della strada.

Andammo a mangiare una pizza alla “Bella Napoli” e Tango mi disse di non tornare a casa perché poteva essere pericoloso. Era evidente che, qualsiasi cosa cercassero, non l’avevano trovata. Non era certamente la banda di zingari che in quei giorni aveva visitato parecchi appartamenti: loro vanno diritti ai soldi e agli oggetti di valore di cui conoscono i nascondigli, per intuito infallibile o per esperienza. Non si accaniscono, come nel mio caso, con i cuscini o con il secchio della spazzatura. Quelli erano altri ladri, forse non erano nemmeno ladri. 

“Non ne sono sicuro ma il tutto potrebbe essere collegato con la faccenda di Pietro”

“In che modo?”

“Non lo so, ma se lo fosse lo scopriremo presto” 

Tormentava la cornice bruciacchiata della pizza che era avanzata nel piatto. Ordinammo un’altra birra.

“Non per spaventarti, ma probabilmente, se tu fossi stato in casa, ti avrebbero percosso per farti dire dove nascondevi quella certa cosa che cercavano. In questi casi qualcuno è stato ammazzato”

A quelle parole il cicaleccio allegro e spensierato della pizzeria si era staccato da me come un vecchio intonaco. Mi sentivo solo, nudo e triste. Usciti per strada, il calore umido della notte mi si appiccicava addosso con i vestiti. Le insegne a neon dei negozi vaporizzavano l’aria pregna d’acqua sfumando i colori delle scritte luminose. Camminavamo in silenzio. Non avevamo voglia di parlare. “Credevo di essere fuori da questa faccenda. Sono preoccupato per Adelina. Voglio dire che se Adelina fosse stata in casa…”

“Dove vai a dormire stanotte?”

“In un albergo, penso, al Buton.”

“Vieni a casa mia, se ti accontenti di un divano. E’ un divano letto comodissimo. Ci ho dormito parecchie notti, tutte le volte che litigavo con Marta” 

“E Marta chi sarebbe?” 

“Di solito gli interrogatori li faccio io! Marta era mia moglie. Lo è stata fino a sette mesi fa. Siamo separati.”

La casa di Michele era in fondo alla strada della pizzeria e la raggiungemmo in pochi minuti. Evidentemente la scelta della “Bella Napoli” non era stata  casuale: aveva già il proposito di ospitarmi. Seduto, dovrei dire stravaccato sopra una comoda poltrona in pelle nera, di modernariato, sorseggiavo lentamente un Chivas guardandomi attorno, mentre Michele nella stanza accanto faceva non so quali e quante telefonate. Quando tornò in salotto notò che i miei occhi si erano posati sulla foto di una bella ragazza bruna, dagli occhi intensi.

 “Quella è Marta, la mia ex moglie”

“Carina!” 

“Si, e pure molto intelligente”

L’appartamento denotava la mancanza di una donna, come il mio: le cose troppo in ordine o troppo in disordine, l’assenza di quelle suppellettili che ingentiliscono l’ambiente, libri e CD sparsi dappertutto.

“Il lavoro non mi consente di avere una famiglia. Marta non capiva perché tornassi a mezzanotte e magari saltassi giù dal letto alle due, perché rischiassi la pelle per poche lire. In realtà io pure mi pongo a volte questa domanda. Sai com’è, si litiga perché non ti  presenti alla cena di Natale. Poi ti dimentichi l’appuntamento del teatro, poi devi andare in ferie e lei è costretta a partire da sola perché ti hanno chiamato per un’urgenza. Poi si va a litigare per ogni minima cosa e la vita in due diventa insopportabile” Gli rimase appiccicata al viso un’espressione tristemente pensierosa. Il ventilatore a soffitto smuoveva l’aria con una sensazione fittizia di fresco. Numerose zanzare punteggiavano la parete, aggrappate al muro, non osando navigare nell’aria ondosa. “Tieni sempre la finestra aperta? Non ti divorano le zanzare? Dovresti almeno metterci una zanzariera.”

“Sono alquanto claustrofobico e pure d’inverno la tengo aperta. Ti metto l’apparecchio per le zanzare. Questo è il divano- letto: è spazioso, abbastanza lungo per le tue gambe. Ci dormirai bene.”






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